Il nostro doppio agente all’Avana

Da il manifesto – 03 Maggio 2005

Uno 007 cubano infiltrato tra gli anticastristi racconta se stesso e il suo paese assediato. «All’inizio pensavo alla gloria, poi tutti mi hanno odiato. Ma dovevo aiutare Cuba»
di
GERALDINA COLOTTI

Nel 1994, un chilo di plastico è destinato a esplodere nei locali del Tropicana, famoso cabaret dell’Avana. Lo ha mandato da Miami la struttura clandestina della Fnca, la Fondazione nazionale cubana-americana, che raccoglie la crema dell’anticomunismo latinoamericano. Ma l’attentato fallisce. L’agente Fraile, incaricato di far esplodere l’ordigno, è in realtà il guatemalteco Percy Francisco Alvarado Godoy, classe 1949, infiltrato della sicurezza cubana. Da allora, ormai «bruciato» per aver dovuto deporre al processo nel `99, Alvarado è rimasto sull’isola per motivi precauzionali. Quello che ha intrapreso in questi giorni, su invito dell’Associazione Italia-Cuba, è il suo primo viaggio in Italia. Obiettivo, spiegare che «il piano per la transizione democratica a Cuba», proposto dagli Stati uniti, è in realtà «l’ultimo atto di una politica di illegalità internazionale». Lui, dice, sa di cosa parla. E, in una conversazione con il manifesto, torna sulla sua attività d’intelligence, durata 22 anni. «Sono un rivoluzionario latinoamericano» – inizia con enfasi. «Ho avuto il grande privilegio di vivere con i cubani fin dai primi momenti in cui hanno scelto una vita più degna di quella che allora stava vivendo il mio popolo in Guatemala». Alvarado è figlio di esuli. Il padre, guardia civile della regione, ha appoggiato la rivoluzione democratica di Jacopo Arbenz. Perciò nel `54, a seguito di un’invasione di mercenari nordamericani, finanziati dalla United Fruit company, la famiglia fugge in Argentina e poi a Cuba.

Quando Percy Alvarado arriva a Cuba, all’età di 11 anni, è il 1960. L’anno del primo embargo nordamericano, imposto al neonato governo rivoluzionario di Fidel Castro, che ha rovesciato la dittatura di Fulgencio Batista il 1 gennaio 1959.

Studenti in campagna

«Dagli 11 ai 12 anni – racconta l’ex-agente – sono stato mandato in campagna, insieme ad altri 200.000 coetanei. Dovevamo portare cultura e coscienza al contadino dimenticato e sfruttato. La rivoluzione gli aveva restituito la terra, come sta facendo oggi Chavez in Venezuela, e aveva dato una casa a tutti». Il giovane Percy deve alfabetizzare un contadino vedovo, che ha due figli. L’uomo «è spesso via per raccogliere il carbone». Lui cucina e accudisce i piccoli. Ma un giorno uno dei due cade nel pozzo. «Chiedeva aiuto – ricorda Alvarado – ma io non sapevo nuotare. Mi tuffai lo stesso. Fummo in salvo solo perché l’altro fratello corse per due chilometri a cercare aiuto. Ero contento di aver fatto la cosa giusta, ma umiliato per non aver saputo essere un eroe».

La rivoluzione, intanto, non ha vita facile. Gli Stati uniti hanno riconosciuto il nuovo governo perché Castro ha promesso di tenersi alla larga dai comunisti. Ma quando sull’isola sbarca l’emissario dell’allora Unione sovietica e stipula un accordo economico in merito alla vendita di zucchero, gli Usa rompono le relazioni diplomatiche. E’ il gennaio 1961. In aprile, un migliaio di profughi cubani agli ordini della Cia sbarcano nella baia dei Porci, ma vengono sconfitti dalla difesa castrista. Nel ’62, a seguito di un viaggio a Mosca di Raoul Castro, fratello di Fidel, Krusciov installerà sull’isola caraibica un potenziale bellico comprensivo di missili, aerei e di un contingente formato da 42.000 uomini. Un grosso momento di frizione fra i due blocchi in cui è diviso il mondo nel Secolo breve. Da allora, dice con rammarico l’agente Fraile, il timore di nuovi attacchi destabilizzanti – Fidel scamperà a un numero impressionante di attentati – costringe il paese «ad avviare molti giovani al lavoro di intelligence piuttosto che agli studi».

Al momento della rivoluzione, a Cuba vi sono tre università, oggi quasi 70. Il paese povero con il più alto tasso di scolarizzazione. Ma anche «gli agenti Fraile» si sono moltiplicati. Persone come Percy. «La rivoluzione – racconta oggi – mi ha dato l’opportunità di stare nel posto dove volevo trovarmi e dove potevo essere più utile. Ho visto l’eroismo quotidiano di un popolo, capace di rigenerare dall’interno la propria rivoluzione. Avrei fatto qualunque cosa per aiutare Cuba».

L’occasione si presenta nel `77. Alvarado è il responsabile di un’associazione giovanile di solidarietà con la rivoluzione cubana, ha una laurea in economia e scienze politiche. Gli viene chiesto di far parte dei servizi di sicurezza. In che modo? «E’ segreto», risponde lui adesso. Segreto. Una parola che ricorrerà spesso in questa conversazione. Segrete anche le motivazioni? «No – dice – questo te lo racconto. Ho accettato subito perché sono un romantico. Cuba aveva bisogno del mio aiuto. Mi vedevo marciare coperto di gloria. La mia fidanzata mi avrebbe amato alla follia. Mio suocero avrebbe appoggiato la mano sulla mia spalla dicendosi fiero di me, i miei genitori sarebbero stati felici di sapermi già uomo capace di simili responsabilità. Mi sembrava di poter ingoiare un tank e sputarne i proiettili contro il nemico…». Invece non può dire a nessuno che fa parte della sicurezza, e per infiltrarsi fra gli anticomunisti deve sembrare diverso, fingere di imborghesirsi.

«Così – dice ancora – ho dovuto mettere la mia pelle su quel romanticismo. Ho perso tutto: la donna che amavo tanto non mi riconosceva più, mio suocero per la stessa ragione mi ha cacciato di casa, il comitato difesa della rivoluzione di cui ero presidente, il sindacato e l’associazione giovanile di solidarietà, mi hanno espulso. Per tutti ero diventato un traditore. Invece stavo difendendo il mio popolo». Anzi, alcuni ex-agenti «sono tornati nelle loro case senza che nessuno abbia saputo niente dei loro trascorsi», altri sono morti o detenuti nelle galere nordamericane, condannati per spionaggio e cospirazione contro la sicurezza statunitense. E’ il caso di Antonio Guerriero Rodriguez, Fernando Gonzales Llort, René Gonzales Sechwerert, Gerardo Hernandez Nordelo e Ramon Labanino Salazar, ancora prigionieri degli Usa. Alvarado è venuto in Italia anche per promuovere la solidarietà nei loro confronti.

«Mai sparato un colpo»

Ma che succede nella testa di un giovane costretto a fare per lungo tempo il doppio gioco, a cosa ci si aggrappa, si può rimanere la stessa persona? «Adesso ti racconto un segreto» – dice Alvarado. «Non ho mai sparato, né dato un pugno a qualcuno. Non sono un uomo d’armi o di ghiaccio. Ho avuto paura. Negli anni, a volte, ho tentennato. Non sapevo se ce l’avrei fatta. Ma lo volevo. Non potevo deludere Cuba. E vuoi un altro segreto? Forse il giorno più triste della mia vita è stato quando ho dovuto uscire dall’ombra. Ho ricevuto molti riconoscimenti pubblici e ammirazione dal mio popolo, ma il mio cuore batteva più forte quando combattevo dall’altra parte come infiltrato».

Paura e determinazione. Quando gli attentatori gli chiedono di sottoporsi alla prova della macchina della verità, Alvarado accetta. Quella prova, però, non arriva, e lui può tornare a Cuba «a compiere un vero addestramento sul poligrafo». E adesso ride, ricordando le domande delle psichiatre cubane, incaricate di esaminarlo – «un altro segreto, compañera». Ma poi, dopo aver infiltrato i vertici del terrorismo anticomunista e mandato a monte parecchi piani, l’agente Fraile comincia a destare sospetti. Seppure accecati dalla brama di potere e denaro, gli anticastristi agiscono agli ordini di uomini addestrati dalla Cia, provati nei campi di tortura del Centroamerica. «Guatemala, Salvador, Honduras» – ricorda ora Alvarado. «Dal `96 partivano da quei paesi numerosi mercenari, pagati (poco) per compiere attentati a Cuba. Ne rimase vittima anche il turista italiano Fabio Di Celmo. Gli organismi paramilitari avevano l’ordine di seminare il terrore, protetti e finanziati dalla destra nordamericana. Il loro capo era Luis Posada Carriles. Ai tempi avrei potuto ucciderlo, ma il governo voleva un processo pubblico, non le eliminazioni illegali».

Condanne a morte «necessarie»?

Processi pubblici e qualche condanna a morte. Se Cuba è ancora portatrice di speranze, perché non rinuncia alle esecuzioni capitali, perché non le affida a metodi diversi da quelli usati dai suoi nemici? E’ la domanda posta di recente anche da molti sostenitori di Cuba. Alvarado la aggira, e preferisce tuonare contro l’ipocrisia dei media occidentali. Contro le «anime belle» che accusano Cuba di non rispettare i diritti umani. Che tacciono di fronte alle sofferenze del popolo iracheno o palestinese. Perché «dopo la morte di Nicola Calipari il governo italiano non ha accusato Bush di fronte alla commissione per i diritti umani?». Alvarado rievoca il recente incontro avuto con un giornalista nordamericano. «Mi ha chiesto se accetterei di combattere il terrorismo insieme ai servizi di sicurezza statunitensi. Ho risposto di sì, ma ad alcune condizioni: che gli Usa liberino i miei 5 fratelli che lottavano come me contro il terrorismo. Che vengano perseguiti gli assassini impuniti a Miami. Che cessino le aggressioni contro il popolo iracheno e quello palestinese». La condanna a morte di due sequestratori? insistiamo – ma solo per essere liquidati: «Una decisione difficile e sofferta, ma necessaria». Necessaria? Altrimenti, «la nostra tragedia si sarebbe trasformata in una festa dell’anticomunismo. Già due aerei pieni di passeggeri, caduti nelle mani di sequestratori, erano ripartiti indenni per Miami. Gli Stati uniti si sono tenuti gli aerei, hanno offerto a tutti visti che di solito richiedono mesi, e liberato i sequestratori».

Più che «far le pulci a Cuba», dice, è importante «non voltare le spalle a chi lotta». E i partiti comunisti tradizionali – «è un’opinione personale, perché a Cuba chi vuole lo fa» – dovrebbero mettersi all’ascolto dei movimenti: nasceranno da lì le nuove avanguardie. Perché «il vecchio mondo non c’è più. L’imperialismo, oggi, divide il pianeta fra sfruttati e sfruttatori, bisogna solo decidere da che parte stare. Cuba ha scelto il suo campo e il processo di rigenerazione ora prosegue dall’interno con l’appoggio del popolo». Sappiano, gli italiani «confusi dal monopolio dell’informazione», che «non ci saranno rivoluzioni delle rose».

Cuba, dunque, «fidando nelle contraddizioni del nemico», nel bassissimo tasso di disoccupazione e anche nei contratti economici firmati con la Cina, ha ancora i suoi sogni. Anche Percy Alvarado ne ha uno. «Un sogno segreto, che non ho mai rivelato: morire un giorno, seduto in un bel parco di Roma, cullato da una pioggia leggera, mentre guardo una bella italiana venirmi incontro».

Lo spionaggio di chi si difende
Percy Francisco Alvarado Godoy ha raccontato parte della sua esperienza in un libro, «Cuba: confessione dell’agente Fraile», pubblicato in italiano dalla casa editrice Achab nel 1993. L’introduzione richiama la vicenda dei 5 cubani ancora prigionieri nelle carceri degli Stati uniti. Delitto di spionaggio. Un’accusa che resta benché – come ha dichiarato al processo James Clipper, ex direttore dell’Agenzia di controspionaggio del Pentagono, la Dia – si possa parlare di spionaggio solo quando viene lesa la sicurezza nazionale o quando si ottengono informazioni segrete, mentre nulla di tutto ciò risulta nei messaggi intercettati, addotti come prova. «Non è Cuba che è venuta qui negli Stati uniti per invadere, aggredire o commettere azioni terroristiche di ogni tipo: è il contrario. Cuba ha il diritto di difendersi. E’ quello che abbiamo fatto, senza danneggiare nessuno», ha affermato Ramon Labanino, uno degli imputati. E tutti hanno ricordato le numerose aggressioni terroristiche subite da Cuba nel corso degli anni. Le «confessioni» di Alvarado ne danno ampiamente conto, fornendo una mappatura di nomi e sigle, che possono cambiare forma e paese di provenienza, ma non obiettivo: cancellare con ogni mezzo la rivoluzione cubana. L’agente Fraile s’infiltra nella struttura clandestina della Fnca, la Fondazione nazionale cubana-americana, attiva fra i rifugiati cubani a Miami. Facendosi introdurre da un antico compagno d’infanzia, ormai divorato dall’ambizione, l’infiltrato conquista la fiducia dei vertici e ne sventa i piani. Ma il merito principale del volume è quello di far riflettere sul «terrorismo dei potenti» e sui suoi esecutori, sulle loro motivazioni ben poco nobili che nessuna retorica riesce a elevare.